Siamo strani, noi che scriviamo per riparare

Siamo strani, noi che scriviamo per riparare: non ci interessa dare un valore – estetico, narrativo, linguistico – alle pagine che scriviamo, per noi non è importante cosa scriviamo, ma chi siamo mentre scriviamo, e chi scrivendo diventiamo.

È facile negarci il tempo per scrivere, tanto più se abbiamo l’inconscio che rema contro (e spesso rema contro), perché nelle nostre giornate ci sono mille impegni più urgenti e mille compiti da assolvere.

Noi però non siamo quei compiti, e forse non è neanche necessario che siamo noi a svolgerli, o almeno non subito; ma in quell’incalzare di azioni che costruisce le nostre giornate abbiamo trovato uno schema, un’armatura che ci tiene su e ci dà motivazione, un alibi per non doverci fermare a riflettere.

Cambiare abitudini può essere difficile, sfuggire allo schema che ci siamo dati (o ci hanno dato, ma noi vi abbiamo aderito) può essere destabilizzante. Soprattutto se non abbiamo, non subito almeno, benefici da mostrare.

Scrivere per stare bene non è come mettersi a dieta o cucire una tenda o scrivere racconti o poesie: non puoi mostrare il fisico più asciutto o la tenda che scherma il sole, non puoi far leggere a nessuno ciò che scrivi. Perché scrivi solo per te. E quel che scrivi devi tenerlo nascosto da occhi indiscreti, devi proteggerlo come fosse una creatura senza alcuna altra difesa che non sia il tuo silenzio.

Perché è nel silenzio che la scrittura ti consente di stanare quanto dentro ti fa male. Perché è un percorso che appartiene solo a te.