Non è fare psicologia

“Scrivere non è fare psicologia. Non spetta a noi parlare dei sentimenti. Lo scrittore prova delle emozioni, e mediante le sue parole le ridesta nel lettore”.[1]

Chi ha un po’ di pratica con la scrittura e soprattutto con le scuole di scrittura, quelle che insegnano la teoria della buona narrazione, l’avrà sentito ripetere chissà quante volte: show, don’t tell. Mostra, non raccontare. Detto in altre parole è ciò che afferma qui la Goldberg: non fare psicologia. Chi ti legge non vuole saperne niente di quali siano le tue emozioni e quali tu abbia previsto per quella situazione, perché il lettore vuole provare le sue emozioni, e soltanto le sue. E se tu scrivi, è questo che devi fare: mettere il lettore in grado di provare e trovare, dentro la tua storia, le sue emozioni. Soltanto così il tuo lettore non si sentirà tradito, non si sentirà l’inutile idiota cui tu, scrittore che tutto sai della storia, ti senti in obbligo di indicare cosa può e deve provare. Non si dà al lettore la minestra già pronta, e pure fredda, pretendendo che la gusti come fosse un piatto gourmet. Lo si mette davanti alla cucina, gli si forniscono pentole e ingredienti e fiammiferi per accendere il fuoco, e poi lo si lascia lì, a cucinare la propria minestra. Che forse non sarà esattamente quella che lo scrittore aveva immaginato, ma sarà la minestra che il lettore vuole godersi, calda quanto lui la vuole, salata al punto giusto per il suo palato.

Offri al tuo lettore di stare dentro le sue emozioni e avrai reso il migliore servizio che avresti potuto rendere. Questo uno scrittore dovrebbe sempre fare: nascondere la propria mano, e lasciare vivere il lettore nella storia.

[1] Goldberg Natalie, Scrivere Zen, Ubaldini, Roma, 1987