09 Nov L’inconscio e la scrittura
Il concetto di inconscio, così come lo conosciamo, è dovuto a Sigmund Freud, padre della psicanalisi, che – insieme al conscio e al preconscio – ne fa uno dei tre componenti chiave del suo approccio.
Freud afferma che il preconscio, l’inconscio e il conscio agiscono fuori e dentro di noi, e creano tre regioni separate ma strettamente connesse. Il livello conscio contiene tutto ciò che di noi conosciamo: idee, affetti, ricordi, convinzioni, cultura e via dicendo; il preconscio è una zona intermedia, per così dire in penombra rispetto alla luce della coscienza (intesa qui non in senso morale ma come ciò di cui siamo coscienti), mentre il livello inconscio è la zona cieca, quella più nascosta e sconosciuta a noi stessi, lì dove va a depositarsi tutto ciò che ci accade, che sentiamo e vediamo, episodi vecchissimi e appena avvenuti, tutte cose di cui non siamo consapevoli. L’inconscio è il serbatoio dove si scarica tutto ciò che viene censurato nel conscio e nel preconscio.
Nell’inconscio non esistono la negazione, il dubbio o l’incertezza, né ci sono le dimensioni del tempo e dello spazio o i principi della logica che fanno da perno alla vita quotidiana.
L’inconscio vive per conto suo, è l’anarchia che scompiglia le nostre vite ordinate e perfettine, che ci fa tornare in gola il dolore per un torto subito quando avevamo tre anni come fosse la più dura atrocità, o anche che ci fa agitare nel sonno facendo riemergere i fallimenti cui durante il giorno non vogliamo dare ascolto, o le perdite che da svegli continuiamo a negare siano perdite.
È il nostro grande deposito, quello che contiene tutto ciò che abbiamo messo da parte, di buono e di meno buono, ma senza rendercene conto: di ciò che è immagazzinato nell’inconscio non siamo consapevoli.
È la cassa di risonanza del nostro critico interiore, quello che continuerà a dirci che non siamo capaci di fare ciò che vogliamo fare (scrivere, ad esempio), che continuare a farlo è solo perdere tempo, che siamo dei gran presuntuosi, che dovremmo smetterla e non ostinarci a volerlo fare anziché… (ognuno metta qui i suoi anziché, ognuno di noi ne ha parecchi da elencare).
Nell’inconscio accantoniamo le emozioni che ci neghiamo di vivere perché sappiamo non sarebbero “accettabili”, le immagini di ciò che vediamo, i film romantici così come le violenze e gli incidenti stradali (con tutte le emozioni connesse), le urla di chi litiga e i discorsi sul tram e i disastri da telegiornale: tutto quanto ci arriva dall’esterno va a finire nell’inconscio e lì resterà fino a quando in qualche modo non troverà il modo per emergere. Saranno sogni, lapsus, arrabbiature ingiustificate, lacrime e risate inaspettate, malattie psicosomatiche.
Saranno anche pagine scritte, se siamo noi a volere che l’inconscio si alleggerisca e ci diventi amico. Non sarà facile. Ciò che sta al calduccio e rintanato non ha certo voglia di venire buttato fuori, proverà a farcela pagare, a morderci le mani e graffiarci il viso. Continuate a scrivere. Potrete perdere una battaglia, ma alla fine vincerete la guerra.
L’inconscio vive di vita sua. Può essere il nostro peggior nemico, ma anche un grande alleato: basta saperlo maneggiare. È infatti anche la cassaforte che si aprirà per mostrarci tutta la ricchezza nascosta lì dentro, e di cui potremo servirci scrivendo: è dall’inconscio che si attinge per dare carattere ai personaggi, per arricchire la trama di episodi e tensioni, per raccontare quella certa storia in quel certo modo.
Usare l’inconscio nella scrittura è quel che la Goldberg chiama puntare alla giugulare, cioè arrivare a ridosso di ciò che sentiamo fa più male, e affrontare quel dolore e quelle parole dalle quali fuggiremmo. Solo scendendo in profondità, solo stando con il coltello puntato al collo e sentendo forte il rischio che stiamo vivendo potremo scrivere pagine vere, nelle quali siamo veramente noi.
Non un mediocre racconto di fatti, ma vita che pulsa.