
28 Lug Quando si inizia a sentire il bisogno di scrivere?
Quando si inizia a sentire il bisogno di scrivere?
Quando ho iniziato io a scrivere, davvero?
Forse quando nei miei dieci anni rincorrevo un’amica che viveva lontano, che vedevo solo d’estate ma che mi portavo dietro nei lunghi inverni che ci separavano. O forse ancora prima, quando Maria era venuta a sedersi nel mio banco in seconda elementare e ci restò solo un anno, ma quell’anno bastò a farmi sentire sola, dopo, e a cercare nelle parole scritte quei giochi e quel sorriso che non avevo più.
Forse nell’adolescenza, quando scrivere era tormentarsi per trovare un senso e un nesso, e scrivevo poesie intrise di ineluttabilità e morte.
Verrà un giorno in cui, anche tu, uomo ormai stanco dirai: è andata…
È l’inizio di una di quelle poesie, che ancora ricordo a memoria. E scrivevo lettere, tante lettere, a chiunque oltre casa mia potesse farmi sentire che lì fuori c’era un mondo, io che ne cercavo uno oltre quello in cui vivevo. Poi una di quelle lettere finì nelle mani sbagliate: mio padre ne trovò copia in un cassetto, ne fece scempio: di quelle parole e di quella ragazzina e dei dolori che quelle parole racchiudevano. Lesse a voce alta, volle che lo ascoltassi. Rise di scherno. Smisi di scrivere, non lo feci più per oltre vent’anni.
Ricominciai che ero già adulta, scrivendo parole d’amore, creando un amore che cresceva dalle nostre parole. Un amore nato per caso, come davvero nascono gli amori, dopo una telefonata e uno scambio di mail: lui sconosciuto a me, io sconosciuta a lui. Eravamo due ruoli, io studentessa di una scuola di specializzazione lui un professore, ma chi e cosa fossimo come persone, non ne avevamo idea. Gli telefonai per chiedergli dei documenti, me li mandò via mail, lo ringraziai. Mi scrisse, gli risposi. Iniziò così. Scandivamo le nostre giornate con le mail che scrivevamo, e aspettavamo. Scrivevo a quell’uomo e costruivo me stessa, scrivevo e vivevo e sentivo le mie emozioni, scrivevo e costruivo un mondo che altrimenti non avrei vissuto. Nel buio di casa mia, la notte, immaginavo le fattezze e la storia e il modo di essere e di vivere di un uomo che mi appariva solo attraverso le parole. Scrivendo costruivo lui e costruivo me.
Scrivere per quell’uomo, per quell’amore nato dalle nostre parole racchiuse dentro mail, mi riconciliò con la scrittura. Pensai di farne di più di un ponte fra me e lui, pensai di scrivere davvero, pensai che scrivere sarebbe stata la mia rivincita, quando di quell’amore non mi restò che una cartella zeppa di mail.
Avevo quarant’anni, decisi che dovevo diventare scrittrice. Volevo disperatamente diventare scrittrice, è così che avrei riscattato tutto ciò che fino a quel momento mi era stato negato. Vivevo a Catania, dietro la porta dell’ingresso, che poi era la parte di casa che faceva da studio, avevo attaccato col nastro adesivo due pagine di Vanity Fair, era l’intervista a Camilla Baresani che da poco aveva esordito: “La vita (di scrittore) comincia a 40 anni”. La tenevo lì, ci posavo gli occhi sopra ogni volta che entravo o uscivo di casa, mi serviva da stimolo e obiettivo. Così pensavo. I quarant’anni passarono, i romanzi che intanto scrivevo rimanevano nel cassetto. A pensarci adesso, quel che era sbagliato in quel mio sogno con tanta intenzione non era tanto il sogno, quanto le premesse. Non si diventa scrittori per avere visibilità o per soddisfare l’ego che vuole vedere il nome in copertina, tanto meno per colmare vuoti. Roberto Cotroneo scrive che “in fondo un bravo scrittore è prima di tutto qualcuno che sa guardare dentro e fuori di sé meglio degli altri”. Io non sapevo ancora guardare dentro di me, e non sapevo di non sapere guardare. Eppure caparbiamente battevo sui tasti del computer e ancora più caparbiamente soffrivo a vedere altri arrivare alla pubblicazione, e io restare ferma lì dove ero.
Forse proprio perché scrivevo agognando la pubblicazione e il riconoscimento pubblico, perché mettevo in quel mio scrivere e nell’ovvio conseguente pubblicare tutto il mio bisogno di rivalsa. Pubblicare non può essere la motivazione che spinge a scrivere: se lo si comprende, si apre un mondo. Io ancora non lo avevo compreso. Nel mio scrivere c’era tutta la frustrazione di una vita che non trovava senso, anche se scrivere mi ha salvato la vita: l’appuntamento con la scrittura, ogni giorno, era un appuntamento con la vita, un motivo per tirarmi fuori dal letto tutte le mattine.
Continuai a scrivere con la sofferenza di una gratificazione che non arrivò mai.
Poi decisi di tornare a scrivere di me. I cinquant’anni erano compiuti già da un pezzo, ma la me bambina era ancora lì, piangeva e mi teneva ferma in un passato che non c’era più ma che continuavo a tenere con me, in compagnia del rimpianto e della rabbia e del bisogno di giustizia. Fino a che non mi resi conto che da quel passato, da quella pozza di acqua putrida nella quale mi ostinavo a marcire, come mi disse il mio amico Fabio, avrei dovuto tirarmene fuori.
E dovevo farlo prima che quel passato mi tirasse giù definitivamente.
Ho iniziato a scrivere e a raccontare su carta la mia storia, la parte della mia storia che più mi ha segnata, la relazione con mia madre. Le ho scritto una lunga lettera, due anni a scrivere ovunque capitava, a riempire quaderni e poi ricopiare su file, a inzuppare fazzoletti su fazzoletti. Riempii 180 pagine di dolore in corpo dodici. Fino a che, un giorno, tutto quel dolore non mi ha più fatto male.
Il passato non cambia, ma cambia il nostro modo di affrontarlo e viverlo.
Il mio passato non è cambiato, però ne sono guarita.
Ho riparato il passato, ho riparato la mia vita.
Ho imparato come fare, ho iniziato a coinvolgere altri.
Così è nata la Scrittura Riparativa®.
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E non scordare mai: la tua storia vale!