13 Dic IL TOPO E ME
Ho un topo, in studio. Un pupazzo di stoffa, brache verdi tenute su da bretelle blu, orecchie lunghe non da topo ma facciotta che lo è, una palla rossa da clown sulla punta del naso e le labbra colorate di bianco. Lo identifico con un topo, ma non sono certa che lo sia. Sta seduto sul bracciolo del divano, proprio di fronte la mia scrivania, e quando come adesso scrivo alzo gli occhi e lo guardo. E lui è lì, impassibile. Un orecchio alzato e l’altro giù, mi guarda.
A volte vedo allegria, in quello sguardo. A volte confusione e tristezza. Il fatto è, lo so, che quello sguardo di pezza mi manda indietro quel che io voglio leggerci. Perché così funziona, il più delle volte: attribuiamo al mondo esterno quel che invece viene da noi.
Lui sta lì a rappresentare un pezzetto della me bambina che ancora avrebbe voglia di perdersi nei giochi, quella me bambina incorniciata in foto solo un metro più in là, quella me bambina che non ho voglia di mettere da parte.
Volevo raccontare del mio topo pupazzo, eppure da queste poche righe sono venuti fuori argomenti che basterebbero per scrivere diversi post, e mi sa che lo faccio: il rapporto con la nostra parte bambina, il passato e i ricordi che ci portiamo dietro, il coraggio di affermare chi siamo, il nostro rifletterci in ciò che ci sta intorno, il bisogno di trovare appigli sui quali poggiare occhi e memoria.
Volevo raccontare del mio topo pupazzo, e invece è ancora di scrittura che ho parlato, oltre che di me, e l’ho fatto in un modo che potrebbe essere detto a livello meta-, perché è la scrittura ad avermi portata lì dove voleva, ad aver aperto riflessioni alle quali, quando ho buttato giù il titolo di questo pezzo, proprio non pensavo.
È la scrittura a portarti dove hai bisogno, se solo ti sai affidare. Senza chiederti dove ti porterà, apri il quaderno e prendi una penna in mano. Il resto verrà da sé.