07 Mar Io, chi sono?
Io, chi sono?
Ci sono momenti, nella nostra vita, in cui ci troviamo a farci domande. Ci chiediamo come potrà essere il futuro e come viverlo, o ci chiediamo se quanto già vissuto ci soddisfi e quanto e cosa possiamo fare per ottenere il meglio dalla vita che ancora abbiamo. O ci chiediamo chi siamo.
Io, chi sono? È una di quelle domande che l’essere umano si fa da sempre, e alla quale è difficile trovare risposte definitive. Possiamo trovare modi per definirci, ma anche definirci non è sufficiente se in quella definizione non c’è il senso del nostro essere qui. Quindi non soltanto “io chi sono”, ma anche “perché sono qui”. Domande universali cui ognuno di noi ha il diritto e la responsabilità di trovare le proprie risposte. Perché il senso del mio essere chi sono e del mio essere qui soltanto io posso comprenderlo.
Per i Greci antichi la nostra “essenza” di individui è data dalla presenza contemporanea di anima, mente e corpo, e se mancasse una sola di queste parti non saremmo chi siamo, anzi proprio non saremmo. A questi tre elementi Platone però ne aggiunge un quarto: a suo dire l’uomo, anthropos, è il risultato dell’insieme dato dal nous (l’essenza o anche l’intelletto o mente), dalla psyche, (lo spirito, l’anima) e dal soma, (il corpo, il supporto sensibile, la parte materiale), ma questi tre elementi si completano, e questa è l’aggiunta non da poco, con il daimon, lo spirito divino.
Quest’ultimo concetto, che Platone collega e fa risalire al mito di Er è, molto più recentemente, il concetto alla base di un magnifico libro di James Hillman, Il codice nell’anima, che così lo spiega: “Prima della nascita, l’anima di ciascuno di noi sceglie un’immagine o disegno che poi vivremo sulla terra, e riceve un compagno che ci guidi quassù, un daimon, che è unico e tipico nostro. Tuttavia, nel venire al mondo, dimentichiamo tutto questo e crediamo di esserci venuti vuoti. È il daimon che ricorda il contenuto della nostra immagine, gli elementi del disegno prescelto, è lui dunque il portatore del nostro destino”[1]. Secondo quanto scrive Hillman, quindi, nasciamo avendo già dimenticato chi siamo chiamati a essere, e la nostra storia su questa terra avrà pieno compimento solo se e quando, avendo riconosciuto e dato voce al nostro daimon, gli avremo permesso di condurci a vivere il disegno che prima di nascere avevamo scelto. Il daimon è lì per farci ciò che potremmo essere, è il nostro nucleo più vero e profondo, il genio che ci vive dentro e che aspetta solo che sappiamo dargli posto e ascolto, ci dice chi siamo, ci riconduce alla nostra essenza.
Il daimon è quindi la vocazione di cui non siamo coscienti, lo spirito che ci muove e ci inquieta, che nei momenti in cui siamo insoddisfatti ci fa chiedere: ma possibile che sia tutta qui la vita?
Questa essenza divina che ci vive dentro da altri è chiamata anlagen; cambia la prospettiva e il nome che viene dato, non cambia l’essenza del discorso: “Nasciamo tutti anlagen[2], come il potenziale al centro di una cellula: in biologia l’anlage è quella parte della cellula che definisce ‘quello che diventerà’. All’interno dell’anlage si trova la sostanza primaria che con il tempo si svilupperà, facendoci diventare individui completi.”[3]
Secondo quest’altra prospettiva la nostra vita dovrebbe quindi consistere nello stimolare l’anlage, perché lì sono già presenti il senso della nostra storia e la forza psichica necessaria ad attuarla.
Anlagen o daimon che sia, fatto è che tutti noi al momento in cui veniamo al mondo custodiamo in potenza tutto ciò che potremmo essere. Nasciamo essendo un essere unico e irripetibile ed è ciò che siamo destinati a essere e onorare, nonostante ci sia chi lotta per omologarsi.
Il daimon sta lì a dirci quale magnifica persona potremmo essere, quale vita ricca di serenità e soddisfazione potremmo avere, se solo sapessimo fare le scelte necessarie. Come ancora scrive Hillman “una vocazione può essere rimandata, elusa, a tratti perduta di vista.”[4] Abbiamo la responsabilità del compimento della nostra vocazione, la libertà di scegliere e determinarci.
Abbiamo in noi tutte le capacità per essere persone complete e appagate, abbiamo da sempre in noi il daimon. Però trascorriamo anni, e a volte l’intera vita, senza che ci sia chiaro, cerchiamo fuori di noi soddisfazione e riconoscimento quando basterebbe avere consapevolezza del nostro intrinseco valore e della nostra unicità. Ma se il riconoscimento che cerchiamo non ci viene da noi stessi resterà qualcosa di infruttuoso, anche dannoso.
Cosa succedere che ci fa rimandare, eludere, perdere di vista la nostra vocazione, il nostro poter essere ciò che siamo chiamati a essere?
[1] Hillman, Il codice dell’anima, pag. 23
[2] la sua traduzione significa anche predisposizione, attitudine, talento
[3] Pinkola Estés, Donne che corrono coi lupi, pag. 26. Il corsivo nell’originale.
[4] Hillman, Il codice dell’anima, pag. 24