06 Ago Lettera a mia madre (5)
Così mi avevi raccontato, e io bambina non avevo trovato niente da obiettare. Le domande adesso sarebbero tante. Come hai potuto non rivendicare la presenza di tuo figlio appena nato? Come hanno potuto tenertelo lontano senza che tu comprendessi? Come hai fatto a non chiederti perché il tuo seno restasse orfano di quella bocca che avrebbe dovuto sfamare? Quante di queste domande invece ti eri fatta, e quanto avevi dovuto seppellire dentro di te per non soccombere?
Il dolore della perdita di tuo figlio si assommava al dolore di non avere assolto il compito che ti veniva richiesto: ti voleva madre, non avevi saputo esserlo. Occorreva essere perfetti, ed essere perfetti non era ancora abbastanza. Gli avevi prodotto un figlio maschio, ma quel figlio non era sopravvissuto.
Massimo nacque quattordici mesi dopo. Finalmente entrava in casa l’agognato erede, maschio come doveva essere seppur non più con il nome del nonno. Il bambino che era morto aveva avuto quel nome, di usarlo ancora non lo permettesti.
Massimo cresceva bene, tu viziavi quel figlio così bello e sano che quasi ti sembrava un miracolo, lo ricolmavi di attenzioni, lo facevi oggetto della tua ansia. Così mi avevi raccontato. Sentivi di dover suddividere le tue cure, sapevi che altrimenti lo avresti soffocato di premure e aspettative. Quando decidesti di avere un altro figlio, dopo quasi cinque anni, nacque una femmina. Ero io.
Mi concepisti dandomi già una funzione. Mi hai allevata e nutrita e accudita, non ti sei accorta fossi una persona e non soltanto un pezzo del tuo incastro. Ero nata, avevi cura di me, questo doveva bastare. Né potevo pensare di pretendere altro. Immagino sia bello sentirsi dire ti amo così come sei, sei nata perché volevo te. Non lo so. Non me lo hai detto mai, né mai l’ho sentito anche oltre le parole non dette.
Non hai mai considerato che i tuoi figli potessero essere altro da te, persone compiute oltre che figli. Dei figli avevi una tua idea, noi avevamo l’obbligo di aderirvi. Non siamo stati ciò che avresti voluto.
Anche del carattere che ho eri scontenta, me ne facevi anzi una colpa. Avete i caratteri sbagliati, mi dicevi. Tu quello di un uomo, tuo fratello quello di una donna. Me lo dicevi come se, essendo come allora dimostravo di essere, dura e battagliera, avessi osato sfidare chissà quale legge non scritta. Come se fossi stata io a derubare tuo figlio di ciò cui avrebbe avuto diritto, se non fosse stato per me. Leggevi in lui il tuo subire in silenzio, il tuo non reagire, il tuo abbassare la schiena e sopportare. Tratti da donna, pensavi. Non era giusto lui fosse così, quando avrei dovuto esserlo io.
(continua)