20 Nov C’è sempre stata un’altalena
È pomeriggio che volge a sera, una tiepida sera di primavera. Una di quelle sere che sembra non debbano finire mai, che è difficile riempire di cose da fare. Sono sull’altalena, in giardino.
C’è sempre stata un’altalena, nel giardino di casa. Due grandi A in tubi di ferro collegate da un altro tubo orizzontale e a metà di questo agganciate le due catene che sorreggevano il sedile, strisce di tavole di legno inchiodate tra loro. Tutto molto artigianale. Non ci potevo volare, su quell’altalena. Appena andavo un po’ più su gli appoggi anteriori si levavano da terra, impennavano quasi fosse un cavallo imbizzarrito che tentava di disarcionarmi. Rallentavo. Sono sempre stata brava sull’altalena. So prendere velocità senza che nessuno mi spinga, accelero e rallento tutte le volte che voglio, conosco i movimenti. Spalle e peso del corpo indietro, gambe allungate e piedi in linea, le mani strette alla catena, fare forza sulle braccia: è il movimento per andare avanti. Poi appena si tocca il punto più alto e inizia il moto di ritorno subito testa sul petto e gambe ripiegate strette sotto il sedile. Oscillazioni che durano pochi secondi, ogni oscillazione il suo movimento, il suo raccogliersi e allungarsi, il suo andare sempre più su fino a tracciare un semicerchio nell’aria.
Con quell’altalena però così tanto non potevo osare. Osare non mi era consentito, di qualunque cosa si trattasse.
Mi contentavo di dondolarmi, di arrivare finché potevo. Cantavo, mentre mi dondolavo, sempre la stessa canzone. A volte mi sentivano da dentro casa, altre volte sussurravo soltanto.
L’altalena era il mio rifugio, quel dondolare mi confortava, mi dava movimento e speranza, aveva un significato che conoscevo soltanto io, che continuo a portarmi dentro. Se trovo un’altalena ancora ci salgo e mi spingo su, finché posso, finché non mi scatta di ridere ancora, di tornare a essere in quella bambina e nei suoi sogni e nel suo bisogno di libertà.